domenica 28 giugno 2020

10 - Il processo per l'investimento di una capra (da "Viale dei Giardini")

Siamo giunti al decimo post e, prima di affrontare prossimamente il caso di Ustica di cui è ricorso il quarantesimo anniversario nei giorni scorsi, concediamoci una pausa e sorridiamo (di riso amaro, però) con un episodio tratto dal mio racconto del 2017 "Viale dei Giardini".
Il maresciallo Pantano sta indagando sull'omicidio di un insegnante di Educazione fisica della locale scuola media e si reca in Procura per conferire con il P.M. assegnatario delle indagini sul caso.
In cancelleria gli dicono che il P.M. è impegnato in un processo presso il Tribunale, al quale la Procura è annessa, per cui il Maresciallo va nell'aula che gli è stata indicata e aspetta che si concluda l'udienza per poter parlare con il P.M.; intanto assiste ad un'udienza che ha dell'incredibile.
Dirò con il compianto maestro Camilleri(*) che fatti, luoghi e personaggi sono frutto di fantasia, reale è invece il contesto che li ha ispirati.

(*) A Camilleri inviai la bozza finale del romanzo per avere il suo parere; mi rispose una signora del suo staff, scrivendomi che il maestro, ormai cieco, non era in grado purtroppo di leggere il mio scritto, ma che mi augurava la miglior fortuna: forse anche grazie al suo augurio, il libro ha avuto apprezzamenti positivi, ben oltre le mie aspettative.

Pantano uscì dalla caserma e si diresse verso il Palazzo di Giustizia, per riferire sull’esito delle indagini, condotte fino ad allora, al Sostituto Procuratore Romano, prima della pausa-pranzo delle 14:00. Alla cancelleria penale, un addetto lo informò che il dott. Romano era nell’aula “A” del tribunale, per due importanti cause che aveva deciso di seguire personalmente.
Raggiunta l’aula, il Maresciallo ne aprì delicatamente l’uscio per entrare senza arrecare  disturbo  all’udienza  in  corso. L’aula “A” era la più grande del Tribunale, munita anche di apposita gabbia metallica per i detenuti in attesa di giudizio.
Pantano notò che si trattava di un’udienza collegiale: un magistrato togato presiedeva, seduto sullo scranno più in alto, coadiuvato da due Giudici Onorari Penali (G.O.P. in gergo), uno dei quali svolgeva anche le funzioni di giudice-relatore.
Il Presidente del collegio giudicante era un giovane di bassa statura che portava la barba, forse per dare l’impressione di essere un magistrato con più anni di esperienza di quelli effettivi. Il G.O.P-relatore era un soggetto obeso con la faccia da gufo, che scriveva concentrato con il capo chino sui fogli del verbale, respirando a fatica come se fosse affetto da enfisema polmonare. Alla destra del Presidente sedeva un giovane, sempre con tocco e toga, dall’aria simpatica, che Pantano da alcuni mesi incontrava spesso in tribunale, chiedendosi chi fosse a causa del suo strano abbigliamento; portava quasi sempre degli stivaletti a punta, “modello cowboy”, evidentemente in una improbabile versione quattro stagioni, come alcuni tipi di pneumatici per auto.
La causa in corso era giunta alla fine: il Presidente controllava con scrupolo la trascrizione del relatore-gufo, talvolta correggendola o integrandola con qualche  indicazione  supplementare. Dalle parole rivolte dal Giudice ad uno dei testimoni (un ispettore della Polizia di Stato), Pantano capì che si trattava di un caso di omicidio, nel quale erano implicati anche alcuni immigrati dai Balcani. Infatti, il Presidente spiegò all’ispettore che alla prossima udienza doveva essere presente anche l’interprete, autore della traduzione delle conversazioni in lingua madre tra i componenti della banda, intercettate dalla Polizia.
Chiuso il verbale, il Giudice chiese al relatore-gufo:
"Abbiamo finito per oggi?"
"No, Presidente, rimane la causa dell’investimento della capra, con l’escussione del brigadiere che fece il sopralluogo al momento dell’incidente e condusse le successive indagini"
"Rappresenta sempre lei il Pubblico Ministero, dottor Romano?" chiese il Presidente al Sostituto Procuratore che sedeva sul lato sinistro dell’aula, tra i banchi riservati alla Procura.
"Un attimo signor Giudice" rispose Romano.
Dopo aver brevemente confabulato con la sua assistente, un’attraente signora bionda di mezz’età che sfoggiava un décolleté vertiginoso, Romano si decise:
"Sì signor Presidente, anche se finora la causa è stata seguita da un mio vice."
Dopo averlo cercato con lo sguardo, Pantano aveva notato che Romano aveva rapidamente consultato un fascicolo, passatogli dalla sua assistente, nel frattempo che la Corte chiudeva il verbale della causa precedente. Più volte lo aveva visto alzare la testa in profonda meditazione, causata probabilmente anche da qualche perplessità sull’operato del proprio vice che era stato presente alle precedenti udienze. Meditazione che, invariabilmente, terminava tra le coppe a balconcino della sua assistente e che Pantano immaginò essere dotate di una forza di attrazione superiore a quella esercitata dal campo gravitazionale terrestre.
"Si chiama a deporre il brigadiere Tomasi" annunciò il Giudice-cowboy.
Si avvicinò e prese posto sul banco dei testimoni il brigadiere Tomasi, ora in pensione, ma in servizio all’epoca dei fatti (un paio di anni prima dell’arrivo di  Pantano), accorso  sul luogo dell’incidente e responsabile delle successive indagini.

Dopo la lettura, da parte di Tomasi, della formula di rito sull’obbligo di dire la verità nella propria deposizione, Romano alzatosi in piedi e parlando nell’apposito microfono, chiese conferma delle generalità all’ex-brigadiere; quindi, prese a leggere il rapporto redatto dallo stesso tre anni prima.
" “In data 04 Agosto 2014, alle ore 13:38, giungeva una chiamata di emergenza alla Caserma dei Carabinieri di Castelfranco Lucano, che informava di un incidente automoilistico accaduto in contrada Ficarelle. Io sottoscritto e l’appuntato scelto Cannavale Pasquale, a bordo di pattuglia automontata, ci recammo immediatamente in località segnalata, onde e per cui accertare la dinamica dell’accaduto. Giunti sul posto con la massima rapidità  consentita dalle stradine interne, pur con il lampeggiante in funzione e la sirena attivata, rinvenimmo un animale (in seguito identificato come capra di nome “Bianchina”, a causa del candore del mantello) riverso sull’asfalto. Il proprietario dell’animale (sig. Propato Antonio) e l’autista investitore (avvocato Pansetti Giulio Michele) discutevano animatamente, bloccando anche il traffico, in attesa del nostro arrivo. Non volendo alterare la scena del crimine, con l’insostituibile aiuto del collega appuntato scelto Cannavale, perimetrammo l’area con apposito nastro bicolore e bloccammo l’animale che, in stato confusionale, tentava di rialzarsi; questo per evitare che la scena del crimine venisse contaminata, compromettendo le successive indagini. Telefonammo quindi al veterinario di zona, dottor A. Celano, chiedendogli di raggiungerci immediatamente, per gli accertamenti medici del caso”."
A quel punto il  Giudice-Presidente interruppe il P.M. per chiedere precisazioni al teste:
"È presente in aula il vostro collega Cannavale?"
"Sì signor Giudice, siede in ultima fila, sul lato alla vostra destra" indicò con il dito indice il Brigadiere.
Tutti, incluso Pantano, si girarono nella direzione indicata dal teste, per ammirare un imbarazzato Cannavale che, all’insaputa del suo superiore, era sgattaiolato dalla caserma dietro di lui, per andare in tribunale, infrattandosi in luogo remoto.
Sentendosi osservato e notando forse lo sguardo accigliato di Pantano, Cannavale tentò di farsi piccolo piccolo, scivolando un po’ in avanti sulla sua poltrona. Contemporaneamente ed in rapida successione, gli si disegnò in volto un arcobaleno di colori: la tinta naturale virò prima verso un rosa acceso, mutando poi in rosso pompeiano, quindi in viola, per stabilizzarsi infine su un bianco-straccio, miscela di tutti i colori dell’iride.
"Quando scrive “pattuglia automontata”, che cosa intende esattamente?" chiese il Giudice-cowboy.
"Trattasi di auto di ordinanza, a trazione integrale, munita di autoradio per comunicazioni interne e apposito lampeggiante con sirena" rispose con pronta fierezza Tomasi.
"Ah..." commentò il G.O.P. e si accomodò sulla poltrona, con evidente delusione per la risposta.
Era infatti un accanito lettore di Nathan Never e, per un attimo, sentendo parlare di “pattuglia automontata”, aveva sperato in una sorta di esoscheletro potenziato, rigorosamente a due posti per rispettare le tradizioni dell’Arma, messo da poco a disposizione dei Carabinieri da qualche segreto centro di ricerche delle Forze Armate.
"Vada avanti, Pubblico Ministero" sollecitò il Presidente della Corte, evidentemente infastidito da quella causa.
" “Giunto sul posto dopo una mezz’ora dalla nostra chiamata, il dott. A. Celano, medico-veterinario, accertò la presenza di alcune ecchimosi e contusioni sul fianco sinistro dello animale, causate dall’impatto con l’auto, oltre ad un evidente stato di shock” " concluse la lettura Romano.
"Vi è poi l’informativa delle indagini condotte successivamente, sempre dal brigadiere Tomasi" proseguì il P.M.
" “Sulla base delle testimonianze raccolte, si è potuto accertare che intorno alle 13:30 la vittima si era separata dal resto del gregge al pascolo, per raggiungere la fontanella posta sull’altro lato della strada, cercando probabilmente refrigerio dalla calura estiva. Durante l’attraversamento venne investita dall’auto dell’avvocato Pansetti, una Lancia Delta che, sulla corsia in salita, viaggiava a circa 50 km/ora. Nei mesi successivi, la povera bestia, a causa del trauma subito, non è stata più la stessa: vagava senza meta, si separava dal gruppo, non rispondeva più ai richiami del padrone. Tanto che questi, circa un anno dopo l’accaduto, dovette abbatterla” ".
Dopo che il Brigadiere ebbe confermato in tutto i suoi verbali di sopralluogo e di indagine, il Presidente chiese al P.M.:
"Quali sono le richieste della Procura?"
"Condanna  per  tentata  uccisione  dell’animale, lesioni aggravate e danni irreversibili, ai sensi dell’articolo 638 del Codice Penale, con ritiro della patente per l’imputato" lesse dal fascicolo Romano, con qualche incertezza.
"La parte civile ha della domande da fare al teste?"
A quel punto si alzò dal banco dell’accusa tale avvocato Enzo De Petiis (leggere “Peziis”, con la pronuncia in latino) Dellacorte, il quale inforcando gli occhiali e aggiustandosi la toga sulle spalle, con aria grave chiese al teste:
"Lei mi dice che ricevette la chiamata di emergenza alle ore13:38 del 04 Agosto 2014? Può confermare l’ora?"
Come se dalla precisione temporale potesse dipendere l’esito positivo della causa per il suo assistito, il signor Propato, proprietario della compianta Bianchina.
Il quale assistito, seduto a due posti di distanza dal suo avvocato, chiese a voce alta:
"Avvocà, e che domanda è questa qua?": villico sì, ma fesso no.
Il Giudice, già a disagio per quella farsa, battè forte con il martelletto, ammonendo la parte lesa:
"Signor Propato, la parola è all’avvocato De Petiis e lei non può parlare."
Sorpreso e frastornato dal colpo del martelletto, Propato si voltò a guardare l’assistente del De Petiis, una donna il cui viso rossiccio cosparso di efelidi era sormontato da una massa informe di capelli a cespuglio, dinamica come un cartello stradale e affascinante come una cambiale; finché De Petiis, allungando il braccio, lo fece rigirare verso la Corte, spiegandogli che in realtà il Giudice si era rivolto proprio a lui.
Intimidito ed anche un po’ offeso per essere stato apostrofato con un pronome femminile, il Propato abbassò lo sguardo e dovette sorbirsi rassegnato le fregnacce che il suo avvocato, da fine dicitore qual’era, regalò senza lesinare alla Corte ed ai presenti in aula, per diversi minuti.
Avvocato di chiara fama, il De Petiis era infatti anche studioso di letteratura giuridica; tanto che si era segnalato come curatore dell’opera omnia in quattro volumi Il Diritto  penale italiano: da Beccaria al Codice Vassalli; co-autore di memorabili testi sulla storia del Diritto, quali Esegesi del Corpus juris civilis di Giustiniano (testo latino a fronte, con riproduzione di miniature medievali, pubblicato a fascicoli e distribuito anche in edicola) e Alle origini della common law: ermeneutica della Magna Charta di Giovanni Senzaterra.
Opere che gli erano valse la nomina a presidente di giuria del prestigioso premio letterario internazionale I Capanni di Pezzo La Corte.
Osservandolo bene, Pantano notò che Propato indossava pantaloni, panciotto e giacca di fustagno verde scuro, su una camicia di flanella a quadrettoni; abbigliamento che, data la temperatura primaverile sopra la media stagionale e l’affollamento dell’aula, doveva produrre un micidiale “effetto serra” sulla traspirazione del povero cristo.
Ipotesi suffragata anche dalla distanza di sicurezza alla quale si teneva il suo avvocato, l’ineffabile De Petiis Dellacorte; distanza ulteriormente amplificata dall’angolo di natural declivio, di una quindicina di gradi rispetto alla verticale, che caratterizzava la postura sui generis del De Petiis, rendendolo simile ad un cammello; forse anche a causa della calappia prominente che ne marcava il profilo greco del tardo secolo.
Fu quindi la volta per la Difesa di contro-interrogare.
Si alzò un vecchio avvocato di nome Gioacchino Luglio, famigerato ma efficace teatrante del Foro, il quale, dopo una pausa meditativa di qualche minuto, sottolineata dalla mano aperta che sosteneva la fronte pensierosa, chiese infine al Brigadiere:
"Lei ha detto che, per non alterare la scena del crimine, bloccaste l’animale investito mentre cercava di rialzarsi. Può precisare come operaste lei ed il suo collega Cannavale?"
Agitandosi a disagio sulla poltrona dei testimoni, il Brigadiere timoroso rispose:
"Bloccai le zampe della vittima con le manette di ordinanza, mentre l’appuntato scelto  Cannavale la immobilizzava con forza."
A quel punto uno scroscio di risa non più contenute risuonò nell’aula e, solo dopo molte martellate, il Giudice riuscì a riportare la calma, intimando all’avvocato della Difesa:
"Avvocato Luglio, le chiedo di concludere rapidamente."
"Ricapitolando, vostro Onore: i due militari tennero bloccato con le manette, sull’asfalto rovente, il povero animale vagante (sottolineò l’aggettivo “vagante” per far comprendere che il proprio assistito se l’era trovato improvvisamente davanti). Sotto il sole di Agosto, intorno alle due del pomeriggio, senza provvedere a ripararlo dal sole, senza somministrargli alcun genere di conforto, fosse pure una semplice ciotola di acqua per evitarne la disidratazione. Chiedo che alla prossima udienza sia chiamato a deporre il medico-veterinario dott. Celano, per chiarire, da esperto, quali effetti possa avere avuto tale insolita e deplorevole condotta."
"Richiesta  accolta" decise rapidamente il Giudice, che non vedeva l’ora di uscire da quell’incubo.
Prima di raggiungere Romano, all’altro lato dell’aula, Pantano si avvicinò al banco della parte offesa per ascoltare il fitto conciliabolo tra De Petiis e Propato, mentre permaneva inalterato lo stato catatonico della “vivace” assistente dell’avvocato.
Il Maresciallo riuscì ad afferrare l’ultima domanda che l’assistito rivolse al suo avvocato di parte civile:
"Che dite avvocà, come sta andando la causa?"
"Caro Antonio, dopo quest’ultima richiesta della Difesa, inaspettata ancorché ultronea, la causa è in bilico: la possiamo ancora vincere, ma potresti pure perderla" sentenziò saggiamente De Petiis Dellacorte, dopo acuta riflessione, citando il famoso “brocardo di Santarcangelo”.


mercoledì 24 giugno 2020

9 - Simul stabunt vel simul cadent - parte terza

Nella forma attuale, il processo penale italiano è informato dai criteri (ratio legis) e dalle disposizioni di tre grandi innovazioni (vere e proprie rivoluzioni) che ne caratterizzano lo spirito liberale, democratico e garantista per l’imputato:
1) la Costituzione Repubblicana, entrata in vigore il 1° Gennaio 1948;
2) il Codice di Procedura Penale “Vassalli-Pisapia”, entrato in vigore il 24 Ottobre 1989;
3) la Legge costituzionale n°2/1999 sul giusto processo, che ha precisato in modo inequivocabile e approfondito, in termini operativi e non solo come dichiarazioni di principio, i caratteri del giusto processo, arricchendo profondamente gli articoli della Costituzione che trattano l’argomento (in particolare, l’art.111 - vedi nota a fine post).
Sono state queste disposizioni che mi hanno consentito di esercitare appieno il mio diritto di difesa, con indagini e memorie difensive (art.121 Codice di Procedura Penale), evitando il trappolone teso al sottoscritto dalla gang dei dobermann, come narrato nei precedenti post n°7 e n°8, parte prima e seconda della presente terza parte conclusiva.

Non si dia per scontato il riconoscimento delle conquiste liberali alle quali accennerò di seguito, perché personalmente ho sperimentato quanto la casta giudiziaria (dalle forze dell’ordine, alla Procura, ai Giudici, agli avvocati e persino agli impiegati di cancelleria) sia intrisa di un atteggiamento autoritario-vessatorio anche verso chi, come me, appare evidente oggetto di ritorsioni e vendette che lo conducono sul banco degli imputati:
1) spesso ho sentito tali addetti ai lavori riferirsi al vigente Codice di Procedura Penale (del 1989!) come al “nuovo codice”, neanche fosse entrato in vigore ieri l’altro;
2) un Giudice di Pace voleva che ritirassi i miei scritti difensivi, in una causa ancora in corso di cui parlerò prossimamente, sostenendo che tali documenti potevano essere presentati solo a mezzo di avvocato difensore; a mia precisazione che persino la Costituzione, all’art.111, prevede che la parte possa presentare memorie difensive, il suddetto Giudice ha avuto la faccia tosta di replicare che “bisogna vedere se la Costituzione [del 1948!] è stata recepita!

Vediamo brevemente le caratteristiche fondamentali del precedente Codice di Procedura Penale del 1930 (detto "Codice Rocco" dal nome del giurista estensore), chiaramente di stampo fascista, quindi le grandi conquiste del vigente sistema accusatorio.

Il regime inquisitorio nel Codice Rocco del 1930
  • L’iniziativa del processo penale spettava al giudice (istruttore-inquisitore), poiché era considerato il solo depositario del “vero” e del “giusto”; egli non doveva essere ostacolato dalle parti e agiva con discrezione (direi arbitrio) pressoché totale.
  • La ricerca delle prove non spettava alle parti, bensì al giudice stesso, perché, avendo più poteri, meglio di loro poteva conoscere il “vero” e il “giusto”.
  • Veniva redatto un apposito verbale delle deposizioni raccolte dall’inquisitore; il verbale riportava la sola interpretazione che l’inquisitore dava alle frasi pronunciate. Si riteneva accettabile che non fossero riportate le parole effettive, bensì la versione data dall’inquisitore, perché soltanto lui era in grado di comprenderne il vero significato (una volta mi è capitato che un ufficiale di Polizia Giudiziaria, che balbettava in italiano e litigava con la tastiera del computer, volesse modificare con linguaggio a suo dire “tecnico” la mia denuncia-querela esposta oralmente; dubito persino che il figuro in questione conoscesse il significato della parola “tecnica” da lui invocata).
  • Vi era la presunzione di colpevolezza e, pertanto, doveva essere l’imputato a dimostrare la sua innocenza mediante prove; se non vi riusciva, doveva essere condannato. In proposito, rileggete il precedente post nella parte che riguarda il primo avvocato (faso tuto mi) assegnatomi d’ufficio e vi risulterà evidente quanto ancora sia dura a morire l’anima fascista di molti operatori del settore giustizia.
  • Poiché l’imputato era “presunto colpevole”, in mancanza di prove d’innocenza poteva essere sottoposto a custodia preventiva in carcere. Il sistema inquisitorio faceva ampio uso di tale strumento; era comunemente denominato “carcerazione preventiva”, perché costituiva l’anticipazione di quella sanzione, che era poi irrogata a seguito della decisione.
  • Il diritto di difesa era semplicemente definibile come un insieme di poteri di “resistenza”, ancora privo, cioè, di connotati “diretti” e “partecipativi” rispetto alle vicende che avrebbero condotto il giudice alla formazione del suo libero convincimento e alla conseguente definizione del giudizio.

L'attuale sistema accusatorio nella Costituzione e nel Codice di Procedura Penale
La nozione di Giusto processo, delineata dalla Legge costituzionale n°2 del 1999, si innesta nell’ambito di un processo penale di tipo accusatorio e si esplica in alcuni principi fondamentali recepiti nell’attuale formulazione dell’art.111 della Costituzione:
  • terzietà ed imparzialità del giudice;
  • rispetto della parità tra accusa e difesa;
  • svolgimento del processo nel contraddittorio tra le parti;
  • ragionevole durata del processo che deve essere assicurata dalla legge;
  • garanzia di una veloce informazione all’imputato della pendenza del processo a suo carico;
  • possibilità per l’imputato di interrogare o far interrogare le persone che lo accusano o che lo possono discolpare;
  • garanzia del contraddittorio anche nella formazione della prova (gli elementi di prova, raccolti durante le indagini, dall’accusa e dalla difesa, diventano prove sono nel dibattimento, a seguito dell’esame nel contraddittorio tra le parti).
  • impossibilità di condannare un imputato in base ad accuse formulate da un soggetto che per libera scelta si è sottratto all’interrogatorio;
  • ausilio di un interprete per lo straniero.
A ciò si aggiunga che:
  • la decisione del giudice deve essere sempre motivata (ad esempio, nel processo civile, era in voga e forse lo è ancora, la decisione del giudice di compensazione delle spese tra le parti, vincente e soccombente, senza motivazione alcuna);
  • il PM ha il dovere di ricercare la verità pro e contro l’imputato, quale emerge dalle indagini e dal dibattimento processuale.
Sono state queste precise disposizioni legislative che mi hanno consentito di ottenere un verdetto di assoluzione piena, nonostante il P.M. presente nell’udienza finale avesse chiesto per il sottoscritto “otto mesi di reclusione, riconoscendo le attenuanti generiche perché incensurato”.
Vi assicuro che non è gradevole sentire pronunciare una tale richiesta di condanna, a maggior ragione quando si sa di non aver commesso alcun reato, ma di essere finito sotto processo per ritorsione, solo per aver denunciato reati di amministratori pubblici che godevano della protezione di esponenti delle forze dell’ordine, della Procura e di altri capomastri abilitati del settore giustizia; i quali usano, per dirla con fine metafora, “cazzuola e frattazzo a ca*** loro”.
Aggiungo e concludo che, quando nel 2015 cominciò il processo, gli affiliati alla gang mi ridevano in faccia, pregustando l'esito a mio danno della vicenda; quando li ho incontrati di recente, poco prima dell’emergenza COVID-19, non ridevano più, ma mostravano facce più brutte del solito: forse  perché ho già cominciato ad agire in modo tale da vederli piangere, quanto prima.

Nota (art.111-comma 6 della Costituzione):
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati: la decisione del giudice (sentenza o ordinanza, in gergo legale decisum) avente effetto sulle parti processuali, deve derivare da un corretto -in fatto e in diritto- percorso logico trasparente, argomentato sulla base dei riscontri processuali; in modo tale che, contro la decisione del giudice, le parti possano presentare ricorso (come previsto dall'art.111-comma 7 Costituzione).  

sabato 20 giugno 2020

8 - Simul stabunt vel simul cadent - parte seconda

Anno 2015
Inizia il processo, per il quale accetto l'assegnazione dell'avvocato d'ufficio, come da norme sul giusto processo (che approfondiremo nella parte terza) e da articolo 24 della Costituzione della nostra Repubblica.
Da precisare che, rimanendo spesso nelle aule del tribunale per attendere il mio turno nelle cause di recupero crediti alle quali sono stato costretto da clienti morosi, ne ho viste tante, per cui ritengo che un avvocato valga l'altro, almeno nei casi in cui non si abbiano validi motivi per confidare nelle sue capacità e, soprattutto, nella sua onestà (per chi vuole avere un'idea in proposito, sia pure romanzata, può leggere il capitolo del mio romanzo Viale dei Giardini, relativo al processo su un incidente automobilistico con una capra, che renderò disponibile su questo blog).
Neanche a pensarlo, ecce homo: l'avvocato "faso tuto mi" che mi viene assegnato, dopo qualche iniziale schermaglia, tenta di convincermi che dobbiamo cercare di dimostrare la mia innocenza, "riempiendo il vuoto temporale che passa dal presunto incidente con la bicicletta al momento della mia denuncia"(?!).
Quando faccio presente al luminare che in Italia vige il sistema accusatorio, ossia che è il PM che ha chiesto il mio rinvio a giudizio a dover dimostrare in aula la mia colpevolezza, il forense cogita un po', poi getta la spugna e rinuncia all'incarico, inviandomi tutta la documentazione, acquisita dal fascicolo di indagine, mediante una sua collega in gonnella, la quale mi augura buona fortuna.
Per inciso, sono poi venuto a sapere che il luminare in argomento ha chiesto e ottenuto la nomina quale Giudice Onorario di Tribunale (GOT) in altra prestigiosa sede: trattasi di nomina che viene avallata dal Presidente di Tribunale, del foro di iscrizione del leguleio, e dal Procuratore capo presso lo stesso tribunale, dell'ufficio cioè che aveva chiesto e ottenuto il mio rinvio a giudizio (questo spiega, a mio parere, il tentativo di mutare il regime accusatorio in inquisitorio, a mio danno).
Il secondo avvocato d'ufficio che mi viene assegnato non tocca le bassezze del primo, ma comunque mi propone il patteggiamento: gli faccio presente che patteggiano i delinquenti, categoria alla quale non ritengo di appartenere.
Il dibattimento si apre e appare subito chiaro che l'unico elemento oggettivo di prova è costituito da un fantomatico video che dimostrerebbe la mia colpevolezza; ovvero le riprese delle telecamere del supermercato non inquadrerebbero alcun soggetto avvicinarsi alla bicicletta, per cui il sabotaggio risulterebbe una "mia invenzione fantasiosa di un fatto inesistente", come scrive l'Obliquo dall'eloquenza magna nella sua informativa riservata per la Procura.
Purtroppo per lui e per la gang dei dobermann che ha orchestrato la mia incriminazione, il video suddetto, di cui chiediamo la visione in aula, non si trova e non è mai stato esaminato da alcuno (uno dei dei PM, che si presentano a turno in udienza, ne apprende stupito l'esistenza).
Per di più, l'Obliquo, da par suo, contraddice in aula la stessa trascrizione da lui fatta del fantomatico video: in essa affermava che nessuno si era avvicinato alla bicicletta per sabotarla, mentre in aula, a precisa domanda posta anche dal giudice, ammette che la bicicletta non era inquadrata dalle telecamere. Dunque, essendo la bicicletta non visibile, che significato può avere "nessuno si è avvicinato ad essa per sabotarla"?
Contraddizione da me rimarcata, insieme ad altre inesattezze sullo stato dei luoghi descritto nell'informativa dell'Obliquo e chiaramente evidenti nei documenti (foto, immagine da Google Earth) prodotti a seguito di mia personale indagine difensiva (il mio avvocato d'ufficio si è ben guardato dal produrre un qualche documento a mia difesa, soffrendo forse del blocco dello scrittore).
Nella mia memoria difensiva scritta per la discussione finale (anno 2019), evidenzio la fraudolenza insita nell'informativa e/o nelle dichiarazioni rese in aula dell'Obliquo: 
Dunque, non solo non si può dimostrare che nessuno si avvicinò alle biciclette, non essendo le stesse inquadrate  dalle  telecamere,  ma  l’avvicinamento  sarebbe  potuto  avvenire  facilmente  passando  dal secondo ingresso, attraverso un percorso non coperto dal sistema di video-sorveglianza. Circa ventitré secoli fa, un tale Aristotele da Stagira fissò le regole del ragionamento logico, in alcuni principi  rivelatisi  sempre  corretti,  mai  fallaci  e  che  sono  persino  alla  base  del  funzionamento  degli odierni personal computer a logica binaria: 1-0, acceso-spento, vero-falso. Nel caso di specie, ci interessa il cosiddetto principio di non contraddizione: di due affermazioni, l’una opposta dell’altra e concernenti lo stesso fatto, se una è vera, l’altra deve essere necessariamente falsa. Il Carabiniere [Obliquo], trascrivendo, prima, che le biciclette erano visibili e inquadrate dalle telecamere del supermercato, quindi affermando in aula che le stesse biciclette non erano inquadrate perché parcheggiate in area non coperta dal sistema di video-sorveglianza, ha sicuramente dichiarato il falso: o nella trascrizione del fantomatico video o nella sua sua escussione in aula. Mancando il fantomatico video a base dell’accusa mossa nei miei confronti, non possiamo dire quale delle affermazioni dell'[Obliquo] sia quella vera e quale sia quella falsa; ma possiamo sicuramente affermare che in uno dei due casi, egli, pubblico ufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri, ha dichiarato il falso.
Risultato: assoluzione piena perché "il fatto non sussiste".
continua nella terza parte

  

sabato 13 giugno 2020

7 - Simul stabunt vel simul cadent - parte prima

Insieme staranno oppure insieme cadranno

Con questo post inizia il racconto in tre puntate di una mia personale triste vicenda, fortunatamente a lieto fine, con il quale cercherò di esemplificare come le norme costituzionali e le leggi che ne derivano, in particolare quelle sul giusto processo, possano incidere nella realtà e ci consentano di rispondere adeguatamente a soprusi e ingiustizie, limitando le nostre sofferenze.
Il titolo allude alla perversa sintonia che talvolta si viene a creare tra apparati corrotti e delinquenziali dello Stato, a torto confusi con lo stesso Stato, il quale coincide, invece, con l'insieme dei cittadini sovrani, come recita la nostra Costituzione.
Proprio come nel fenomeno fisico della sintonia o risonanza (elettromagnetica e acustica), quando figuri di un certo tipo si incontrano, amplificano la loro maligna protervia a scapito di inermi cittadini; ai quali, se nel giusto, non resta che difendere i propri diritti inviolabili appellandosi alle leggi della nostra Repubblica (vi è anche la strada della risposta violenta, come extrema ratio, ma ovviamente da evitare, a meno che non vi siano alternative, come accaduto durante la resistenza al regime fascista).
Nella prima parte descrivo i fatti all'origine del processo penale a mio carico, nella seconda riassumerò i fatti salienti del processo, nella terza illustrerò quei principi e quegli articoli del Codice di Procedura Penale vigente che mi hanno consentito di uscire da una situazione molto grave.

Agosto dell'anno 2014
Il mio affettuosissimo (oltre che simpatico e bello) nipote (all'epoca di tredici anni) viene a trovare mia madre, ammalata terminale di tumore, purtroppo scomparsa pochi mesi dopo, nel Gennaio del 2015.
Un giorno conduco mio nipote con me in bici a fare la spesa nel locale supermercato di un noto marchio italiano; parcheggiamo le bici nel cortile di ingresso del supermercato, facciamo i nostri acquisti, che deponiamo nei cestini delle biciclette, quindi riprendiamo a pedalare sulla via di casa (tragitto di circa 1,5 km).
A circa 400 metri da casa, su un tratto in leggera salita di una strada statale che è tangente al centro abitato, il ragazzino mi avvisa che non riesce più a pedalare, perché qualcosa si è bloccato nel meccanismo di trasmissione a catena della bicicletta. Gli dico di accostare al bordo della carreggiata e di scendere dalla bici, come faccio anche io. Esaminando la bicicletta, mi accorgo che il bullone che fissa la ruota posteriore al telaio della bici si è completamente allentato e la ruota non si è sfilata solo grazie alla presenza dei numerosi rocchetti e del rinvio-catena del cambio di velocità (nelle stesse condizioni, la ruota anteriore, che è priva di tale meccanismo, si sarebbe sfilata, con le gravi conseguenze che è facile immaginare).
Riavvito il bullone e riprendiamo a dirigerci verso casa, però a piedi, spingendo le bici, perché l'incidente mi ha preoccupato, sebbene non abbia ancora realizzato la possibile causa che lo ha prodotto.
Tornati a casa e riposti gli acquisti, lascio mio nipote con la nonna e scendo in magazzino, dove tengo le biciclette; esamino con attenzione la bicicletta di mio nipote, provo a vedere se è possibile che si sia trattato di un allentamento accidentale e mi accorgo invece, data la salda tenuta del collegamento con il telaio della bicicletta, che deve essersi trattato di un vero e proprio sabotaggio, anche se non riesco a comprenderne i motivi.
Telefono allora alla locale Stazione dei Carabinieri per denunciare il fatto che, solo grazie a condizioni fortuite (strada in salita, bassa velocità, tenuta del meccanismo posteriore del cambio di velocità), non ha prodotto seri danni al ragazzino.
Siamo in periodo estivo e il comando, ahimè, è affidato ad interim ad un soggetto con il quale ho già avuto da dire; il milite in questione, dopo aver capito chi sono, comincia a farmi difficoltà, sostenendo che io non ho alcun diritto di sporgere denuncia, non essendo il genitore del ragazzino. 
Solo dopo la mia decisa presa di posizione e avviso di mia denuncia anche nei suoi confronti per omissione, si decide a fissarmi appuntamento di lì a poco in Caserma, per verbalizzare la mia denuncia contro ignoti. 
Nel frattempo, come ho appurato in seguito, avvisa il comando di un vicino paese e chiede rinforzi, per poter effettuare un sopralluogo presso la mia abitazione, dove è riposta la bicicletta. Sopralluogo che compie, dopo aver verbalizzato ob torto collo la mia denuncia, insieme con il suo collega che ha chiamato a rinforzo, essendo io "già noto a quella Stazione" (così è scritto nella sua informativa, che lessi poi negli atti del processo) come persona che arrecava disturbo con le sue continue denunce, a suo dire prive tutte di fondamento.
Nella sua informativa, il milite noto si riferisce a fatti ben precisi, che però evita di citare nel documento da lui redatto e trasmesso alla Procura:
1) una mia denuncia per occupazione abusiva, da parte dell'Amministrazione Comunale, di un terreno mio padre, che dista poco più di un chilometro dalla Caserma; in quattro anni, il milite non aveva trovato il tempo di effettuare un sopralluogo, come richiesto dalla competente Procura che lo aveva delegato per le indagini del caso;
2) una mia denuncia per la mancata realizzazione, con fondi pubblici per diversi milioni di euro, di opere infrastrutturali (vie di fuga e spazi di raccolta di primo soccorso in caso di terremoto, tuttora non realizzati) per ridurre la vulnerabilità sismica dell'abitato (fondi distratti, pare, per l'ampliamento del cimitero comunale, tanto che avevo fatto presente agli organi preposti, che quei fondi erano destinati a evitare danni e morte dei cittadini, non a trovare loro un alloggio definitivo nella "città in negativo");
3) una mia decisa protesta quando, dopo avermi fissato un appuntamento in Caserma per la verbalizzazione di una delle tante denunce contro l'Amministrazione Comunale, voleva rimandarmi indietro perché impegnato in altro: non poteva egli occuparsi contemporaneamente di due vicende, non possedendo il dono dell'obliquità (testuale, per cui da allora mi riferii sempre a lui come all'Obliquo).
Per chiudere questa prima parte e dare un'immagine vivida del personaggio che sembra uscito da una barzelletta sulla Benemerita, basti pensare che usava scrivere con una penna composita di sua invenzione: con un lavoro di fino, degno della meccanica di precisione, aveva unito due penne mediante nastro adesivo, disponendole a punte contrapposte, in modo che ruotando rapidamente la sua creazione di 180°, poteva scrivere il testo in nero e le correzioni in rosso (l'opera esiste ancora presso la Caserma, non avendo avuto il coraggio, i suoi colleghi, di distruggere una tale creazione del design italiano, che pone di diritto l'Obliquo accanto a Bruno Munari e a Marco Zanuso).
Infine, in una sua informativa, sempre relativa ad una mia denuncia, aveva scritto che "si era recato sul posto a bordo di una pattuglia automontata"; a lungo ho riflettuto sulle possibili caratteristiche di tale mezzo, se figura mitologia metà Carabiniere e metà automobile o esoscheletro potenziato da lui indossato per amplificare le sue capacità motorie: non avendo trovato alcun riscontro, il dubbio permane. 

Comico ma maligno e pericoloso, brigò con le sue "indagini, trascrizione di un video [fantomatico - si vedano i successivi post] e informative riservate", per farmi ottenere un bel rinvio a giudizio nel Dicembre del 2014, con l'accusa di Simulazione di reato (art.367 del Codice Penale); il tutto nel tempo rapidissimo di pochi mesi, a confronto con i quattro anni di stallo per il sopralluogo nel terreno di mio padre vicino alla Caserma, la cui occupazione abusiva da parte del Comune era stata da me denunciata (vedi sopra, punto_1).
alla prossima puntata

sabato 6 giugno 2020

6 - A Serena Mollicone, alla sua famiglia

Questo post, diversamente dai precedenti cinque, rientra nella categoria "Dintorni" del titolo di questo blog.

L'altro giorno, guardando il TG nazionale su un canale della RAI, ho appreso della morte del padre di Serena Mollicone. Per qualche secondo l'operatore della RAI ha indugiato su immagini di repertorio che inquadravano in primo piano questo sfortunato signore; forse influenzato dal commento fuori campo del giornalista che ne riassumeva le tristi vicissitudini, mi è parso di vedere la faccia di un uomo roso da un dolore immenso che quanto prima lo avrebbe portato a ricongiungersi alla sua figliola.
Questi i fatti.

Il 1° Giugno 2001, la giovane ragazza di Arce, in provincia di Frosinone, scomparve misteriosamente; il suo corpo venne trovato due giorni dopo, da una squadra della Protezione Civile, nel boschetto di Fonte Cupa, a pochi chilometri da Arce, "in una zona già ispezionata il giorno precedente da alcuni carabinieri, che non notarono nulla. Il corpo era stato adagiato in posizione supina in mezzo ad alcuni arbusti, coperto con rami e fogliame, per poi essere nascosto dietro un grosso contenitore metallico abbandonato. La testa, sulla quale era presente una vistosa ferita vicino all'occhio sinistro, era stata avvolta da un sacchetto di plastica, mentre le mani e i piedi erano legati con scotch e fil di ferro. Naso e bocca erano stati avvolti da diversi giri di nastro adesivo, il che dovette causarle la morte per asfissia dopo una lunga agonia" (da Wikipedia).

Dopo sette anni di indagini che non approdarono a nulla, "l'11 Aprile 2008, sparandosi con la pistola d'ordinanza, si uccise nella sua auto il carabiniere di Arce, Santino Tuzi. Pochi giorni prima, ascoltato dalla Procura, il brigadiere Tuzi aveva dichiarato agli inquirenti che intorno alle 11 del 1º Giugno 2001, nella caserma di Arce era entrata una ragazza – verosimilmente Serena – e che fino a quando era rimasto in caserma, ovvero fino alle 14.30, Serena non era uscita da lì. Il suicidio del brigadiere Tuzi suscitò più di un dubbio per la sua anomala dinamica".

Nel Giugno 2011 vennero iscritti nel registro degli indagati, con l'accusa di omicidio  volontario e occultamento di cadavere, l’ex maresciallo Franco Mottola, sua moglie e suo figlio Marco.
Nel 2018 venne rivelato che la perizia effettuata dal RIS, sulla salma di Serena e sul nastro adesivo con cui era stata legata e imbavagliata, confermerebbe che l'omicidio avvenne nella caserma dei carabinieri di Arce. Nel Novembre dello stesso anno, il maresciallo Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco, indagati per l'omicidio di Serena, nominarono come loro consulente il criminologo Carmelo Lavorino, il quale contestò sia le conclusioni della professoressa Cattaneo, sia quelle del ROS e del RIS; Lavorino mise in primo luogo in discussione che l'arma del delitto fosse la porta della caserma dei Carabinieri di Arce, così come ipotizzato dagli inquirenti (su uno stipite della porta, la testa di Serena sarebbe stata sbattuta violentemente).
Nell'Aprile 2019 si sono chiuse le indagini con la richiesta di rinvio a giudizio di 5 persone tra cui 3 carabinieri. Il maresciallo Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco sono accusati di omicidio aggravato. Il sottufficiale Vincenzo Quatrale è indagato per concorso in omicidio ed il carabiniere Francesco Suprano per favoreggiamento. Secondo la ricostruzione del delitto, a colpirla sarebbe stato il figlio di Mottola, Marco, probabilmente facendo sbattere la testa di Serena contro una porta all'interno della caserma.
Sinceramente mi ha dato molto fastidio vedere rappresentanti dell'Arma dei Carabinieri presenti al funerale del padre di Serena, perché, per mia esperienza personale, l'Arma tende quasi sempre a proteggere i componenti della confraternita, tranne poi buttarli a mare e costituirsi parte civile quando il caso diventa di dominio pubblico e oggettivamente indifendibile (vedi caso Stefano Cucchi).
Molte volte ho dovuto ricordare ai carabinieri con i quali mi sono imbattuto che devono fare il loro dovere, visto che percepiscono uno stipendio pagato dai cittadini italiani che lavorano onestamente. Ho dovuto ricordare (o insegnare) loro che l'Italia repubblicana non è stata certamente fatta dall'Arma dei Carabinieri, spesso collusa con il regime fascista.
I carabinieri onesti e capaci ci sono, una piccolissima percentuale sul totale l'ho incontrata anche io, ma spesso sono silenziosi e lasciano il campo libero a veri delinquenti che abusano della loro posizione, pensando che tutto gli è consentito dalla protezione della divisa; tranne poi mostrare incredibile superficialità e impreparazione in "missioni di pace" in territorio di guerra, come nel caso di Nasirya.
Infine, quei pochi onesti silenziosi, quando interrompono il silenzio e cominciano a parlare, spesso fanno la fine del brigadiere Tuzi.